Non sempre dovere di tutelare la privacy è più importante di altri doveri e diritti nei confronti della collettività. Il caso che esaminiamo oggi è assolutamente controverso e mette in discussione l’applicabilità di una parte del Codice Deontologico medico del 1998 in materia di privacy dei pazienti, a fronte di un caso eccezionale che possa mettere a rischio la salute e la sicurezza dei congiunti del paziente stesso.

Giulia Tenaglia per la rivista telematica Nel Diritto diretta da Roberto Garofoli spiega nel dettaglio una sentenza della Corte di Cassazione depositata il 16 maggio di quest’anno (la n. 11994/17), utile a chiarire una questione intricata nell’ambito di un caso di malasanità che mette in contrasto la privacy del paziente con il concetto di tutela su un piano più generale e collettivo; la domanda principale è: Quando il dovere degli operatori sanitari di tutelare i diritti alla privacy dei pazienti, può essere infranto per una questione più generale di tutela collettiva?

Il marito di una donna malata di HCV, adesso defunto, assiste ai ripetuti cicli di cura, dialisi inclusa, presso la struttura dove è ricoverata la moglie, l’ASL n. 5 di Crotone. La donna, in seguito ad una serie di trasfusioni infette, muore velocemente. Il marito cita quindi in giudizio l’Azienda Sanitaria di Crotone, contestando di esser stato tenuto totalmente all’oscuro sul tipo di patologia della moglie, così da consentirgli di prendere tutte le precauzioni necessarie per evitare forme di contagio.

Dopo una prima condanna dell’Azienda Sanitaria da parte della Corte d’appello, che condannava la ASL di Crotone al risarcimento del coniuge per tutti i danni conseguenti, l’Azienda fa ricorso contro gli eredi dell’uomo avvalendosi del cosiddetto Codice Deontologico Medico del 1998 dove si dice che gli operatori sanitari possono infrangere il diritto alla privacy del paziente solo se questi non sia capace di intendere e di volere; al contrario il paziente deve essere in grado di proteggere la salute dei congiunti.

Il ricorso viene respinto dalla Cassazione in base all’art. 23 l. n. 675/1996 dove si afferma che in presenza di un’autorizzazione dell’interessato a informare i familiari sul suo percorso curativo, i sanitari sono OBBLIGATI a fornire i dati agli stessi. Proprio per questo la sentenza di risarcimento comminata dal Tribunale di Catanzaro è stata ritenuta valida.