Di carcere si muore e il livello dei suicidi dietro le sbarre è una triste realtà tutta italiana, basta pensare ai numerosi casi che si succedono in quello di Sollicciano, tra cui la recente vicenda che l’aprile scorso ha coinvolto un cittadino marocchino che si è tolto la vita proprio tra le mura del carcere fiorentino.
Questa introduzione ci serve per parlare di una recente sentenza della cassazione civile (ordinanza 30985/18) che ha accolto il ricorso dei famigliari di un carcerato dopo che questo si era ucciso in cella. I famigliari e gli eredi chiedono quindi il risarcimento del danno, ottenuto grazie al ribaltamento del verdetto della Corte di Appello di Catanzaro. Con la sentenza della Cassazione si definiscono i termini della richiesta di risarcimento al ministero della Giustizia, soprattutto se il detenuto aveva mostrato chiare tendenze suicidali prima dell’evento, senza per questo esser seguito con cura dallo psicologo del carcere o da un regime specifico di vigilanza. Ci si rifà ad un articolo specifico, il 23 del Dpr 230/00 dove si dichiara espressamente la necessità di ricorrere ad un esperto di osservazione e trattamento per verificare, prima della carcerazione, eventuali cautele da considerare nei confronti di un detenuto in relazione allo stato di restrizione che dovrà affrontare. Nel caso in esame le capacità del detenuto non furono verificate, perché educatore e psicologo erano due figure totalmente assenti nel carcere dove l’uomo si apprestava ad entrare.